La sovraesposizione mediatica avvicina astrattamente chiunque vi passi attraverso: già il solo scrivere qui sulla rete crea una finta familiarità con chi arriva a leggere le presenti frasi. Tra una riga e l’altra, stamattina si potrebbe intuire una malcelata smorfia del viso, assurda perchè distante da sentimenti reali e quasi tangibili: muore un ragazzo in moto, un facinoroso figurante del piccolo schermo, sempre in bilico tra arroganza e assenza di giudizio, una perfetta maschera pubblicitaria. Non sarebbe stato mai possibile conoscerlo, nè tantomeno si è mai palesata la voglia di farlo, soprattutto se davvero nel privato si fosse riflesso il profilo pubblico noto ai più (una quantità imprecisata di abitanti della terra): resta però un corpo a terra violentato dalle telecamere e dalle analisi sulla dinamica dell’incidente, restano gli occhi dei vicini del paddock e il trascinarsi dei parenti sull’asfalto. A 23 anni non si vede una fine, nemmeno la si pensa, tutto è ora e adesso: è giusto così, ma oggi le parole mancano e si fermano in gola, perchè la tv è cruda, le immagini non danno scampo, Marco Simoncelli muore senza nemmeno saperlo, capirlo, immaginarlo. Il cinismo di molti scompare fagocitato dalla tragedia e dall’imprevisto, che cancella la freddezza rendendola impotenza, l’ironia rendendola compassione.
Una autunnale e nebbiosa inquietudine percorre Boys di Cortney Tidwell, impulsivo acquisto di qualche anno fa.
Un cantautorato fumoso e avvolgente, abituale e ben fatto, con una voce di tutto rispetto, suadente, che ammalia e culla, intima e affettuosa, sin dal primo passaggio di “Solid State”, tirato forse un po’ troppo sul finale in controcanto. La delicatezza attraversa tutto il cd strabordando a tratti: è sui passaggi più lenti e caldi che la resa è migliore lasciando le briciole a tracce con pretese più elettroniche/arrabbiate, non sempre riuscite (“Waitsuii”, “17 Horses” e “0h, Suicide”). Così “Son & Moon” prima ci abbraccia e poi ci lascia andare in alto, in un modo che viene ripreso in “Oslo”, con meno fortuna; “Palace” galvanizza la mattina, caricandoci di grandi aspettative nelle piccole scoperte quotidiane; “Bad News” ci guida in un testardo andare sempre avanti, fino a raggiungere il ristoro rilassato della classicissima “Being Crosby” e della noiosa “Oh, China”. La voce da ragazza filtrata o limpida, secca e fredda in passaggi veloci o calda su note più accennate, dipinge frantumando i colori per focalizzare l’attenzione su quelli che più potrebbero definire un disegno variopinto del contesto in cui si muove, insicura nella nebbia onnipresente (vedi copertina) a coprire i ragazzi della sua vita: “So We Sing” riassume il tutto e può chiudere la recensione, fatta saltando di ramo in ramo, su questo albero intricato e lussureggiante, come la musica appena ascoltata.
Consigliato a molti: semplice, forse noioso, ma ri-costruttivo.
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